Prof. avv. Andrea Borroni
I discorsi in ambito di crisis management, pur ricorrendo da sempre, non sono ancora riusciti a far breccia nella cultura aziendale/giuridica italiana in termini concreti.
A nulla sono valsi gli allarmi suscitati dall’ultima bolla finanziaria che sembravano aver innalzato il livello di attenzione riservato da parte delle imprese ai temi legati all’anticipazione delle crisi medesima.
Invero, le riforme che hanno largamente sistematizzato il fenomeno della crisi di impresa, da un lato, e l’alluvione applicativa dei modelli legati al Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231 in tema di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica (a norma dell’art. 1 della Legge del 29 settembre 2000, n. 300), dall’altro lato, non hanno previsto una disciplina ad hoc per la regolamentazione della tematica del crisis management.
In una recente inchiesta condotta dall’Associazione Nazionale dei Risk Manager (ANRA), prima dell’inizio dell’attuale epidemia, ben il 51% delle imprese non si era dotato di un piano di crisis management, e, tra queste, solo il 14% aveva mappato il rischio epidemologico, trascurando il fatto che il pericolo sanitario sia segnalato, da oltre dieci anni, come il fenomeno eziologico a più alta incidenza. I rischi maggiormente percepiti, sono legati al settore della cyber-security (67%), ai rischi ambientali (45%), o alla reputazione dell’azienda medesima (57%).
L’esplosione e l’esacerbazione del Covid-19 ha acceso nuovamente i riflettori sulla necessità delle imprese di far fronte a eventi di portata imprevedibile, unica e, per larghi tratti, etero gestiti e normati.
L’elaborazione di modelli efficienti di allerta, reazione e gestione della crisi nell’ambito di un’organizzazione di impresa che sia sottoposta a eventi inaspettati, rispetto ai quali si dispone di insufficienti informazioni, sono spesso accantonati quando si versa in tempo di pace; in periodi emergenziali, dinnanzi a avvenimenti che si susseguono quotidianamente in forma differente – e che rischiano di far perdere il dominio del controllo e una “guida sicura” del timone aziendale – i problemi di organizzazione interna e comunicazione si sommano a confusione e stress (Per il management si pone oggi la possibilità all’occorrenza di ricorrere anche a Entità Algoritmiche, ossia intelligenze artificiali che siano dotate di diritti e funzioni decisionali legali, come già possibile nel Delaware. Tali Entità potrebbero assumere dipendenti, gestire transazioni finanziarie, fare campagne di crowdfunding, emanare chirurgicamente una serie illimitata di direttive e decisioni senza essere distratti emotivamente dalla crisi o dalle pressioni esterne. Ovviamente, nel caso di “occorrenza algoritmica non programmata” si verifica una lacuna per la quale l’uomo deve intervenire. Urge una regolamentazione anche in Italia.)
Stante la complessità del tema e la specificità di ogni realtà commerciale e societaria, non si possono che fornire minime linee guida di base su modelli che, nelle realtà imprenditoriali italiane, sono ancora scarsamente recepiti e si limitano, per di più, alle elaborazioni teoriche più elementari (sommariamente riassumibili, in via di fatto, in direttive tipiche quali “amministratore delegato e presidente devono viaggiare su mezzi di trasporto differenti”; in termini di drafting, invece, vengono tradotte in norme di funzionamento (che noi Policies And/Or Law 1, linee guida e/o norme di primo livello) degli organi endosocietari e miranti a scongiurare deadlock decisionali ovvero ad affrontare sostituzioni di cariche direttive; o, in ipotesi di gestione di eventi epidemici, il tutto era limitato, antecedentemente al periodo attuale, a ipotesi di “indisponibilità del personale essenziale o delle sedi geograficamente investite dal fenomeno).
Il crisis management, oggigiorno, richiede, invero, interventi mirati e rivolti alla fase prodromica alla crisi, alla sua gestione in itinere e ai meccanismi per la ripresa (e il rilancio) con la previsione di strumenti già predisposti (se non attivabili, in via automatica, secondo il paradigma degli smart contracts, ove possibile) e un set di risposte – nei limiti del possibile – di cui disporre: tra tutti, dovrebbe essere già individuato un team per la gestione dell’emergenza che sia deputato alla comunicazione (e alle comunicazioni) alla luce di quelli che sono i più evidenti rischi e le più manifeste vulnerabilità e che abbia, anche in tempo di normale andamento della vita di impresa, il compito di monitorare le potenziali avvisaglie (n.d.r., il virus Covid ha “ufficialmente” varcato i confini cinesi intorno al 21 febbraio 2020, tuttavia, i primi moniti erano già stati sollevati settimane prima e un’azienda che si fosse dotata di procedure di pronta reazione avrebbe goduto di una migliore posizione per affrontare le ripercussione della sopravvenuta pandemia sui contratti in essere). Ovviamente, la gestione della comunicazione con gli stakeholders è di esiziale importanza: siffatta comunicazione, difatti, non si si indirizza esclusivamente verso l’esterno e verso i propri dipendenti, associati, fornitori ma riguarda altresì la gestione del flusso di informazioni relative a regole da seguire e, si spera, quanto prima, incentivi o facilitazioni di cui giovarsi (insieme all’ottenimento di moratorie su linee di credito esistenti, all’accesso a nuovi finanziamenti con o senza garanzia pubblica e all’assistenza nell’individuazione di fonti alternative alla finanza bancaria).
In tal modo, infatti, sarà possibile riattivare il ciclo di produzione e l’operatività quotidiana e strumentale dell’impresa, senza ritardi ultronei, senza ipotizzabili vuoti operativi a cagione dell’inutile arretrato che si è venuto ad accumulare ovvero in quanto non siano già stati predisposti progetti la cui elaborazione avrebbe potuto essere ideata in tempo di stasi.
Le ipotesi di riconversione parziale e temporanea ovvero di apertura di nuove linee, la gestione degli anticipatory breaches e la creazioni di argini a scalate ostili non può essere trascurata.
Si consideri, altresì, che rientrano nella mappatura del crisis management anche opposte realtà in cui l’emergenza ha offerto terreno fertile per il sorgere di presupposti che, per converso, hanno condotto a un’esplosione della domanda (come è accaduto per la fornitura di materiale sanitario) con la necessità di superare gli ostacoli per il reperimento del materiale e la distribuzione del prodotto finito.
La presenza di regole e procedure elaborate a priori, frutto di una prognosi ex ante, svolta senza l’impellenza dell’urgenza e del dramma, permette quella linearità e progressione tra business e management, la cui soluzione di continuità ha costi enormi e sconta gli esborsi di una “riaccensione della macchina”.
La strategia della continuità è uno dei traccianti luminosi a cui fare riferimento quando la propria impresa si muove in tempo di guerra – in uno scenario in cui si è sottoposti a ordinanze e decreti d’urgenza in rapida successione, alla chiusura di scuole di ogni ordine e grado nonché alla sospensione di aree di svago e aggregazione, ma altresì di fiere, saloni e eventi di internazionalizzazione e concorsi, alla chiusura dei tribunali, nonché alla sospensione di fiere, saloni e eventi di internazionalizzazione e concorsi, alla chiusura dei tribunali, nonché, a un divieto di spostamento variamente articolato, con paralisi di attività legate al trasporto (dal viaggio al turismo; dalle ripercussioni sulla supply chain e sull’approvvigionamento delle materie prime alle attività di controllo o acquisto da svolgersi personalmente) con tendenze de-globalizzanti e con ulteriore abbattimento del margine di spesa del singolo consumatore/utente/operatore per mancata attività o perduto incasso.
È innegabile, dunque, che l’epidemia in corso rappresenti un palmare esempio di crisis management, trattandosi di occorrenza dirompente e distruttiva, idonea a rovesciare e abbattere intere aree economiche sia per ciò che riguarda i propri stakeholders (si pensi, nel caso dei trasporti, ad esempio, agli operatori, ai gestori delle reti, etc.) sia per quanto concerne i fruitori di quel segmento di attività (quali i cittadini o i fornitori collaterali), con evidenti traumatiche ripercussioni di immagine e di affidamento verso il comparto. Gli endemici problemi dei trasporti, ad esempio, in tali circostanze si sono rivelati ancor più evidenti.
Il contingentamento dell’offerta per ragioni di sicurezza sanitaria e i dubbi organizzativi legati alla ripresa rappresentano tuttora un limite alla “ripartenza”.
I plurimi interventi sia all’interno della compagine governativa sia nella visione regionale non hanno certamente facilitato il compito dei gestori delle reti e degli operatori di sicurezza a qualsiasi livello.
Le migrazioni verso Sud, i controlli poco efficaci, la svariata e articolata documentazione di cui ci si deve necessariamente dotare per gli spostamenti e le regole, ancora una volta, difformi da Regione a Regione, se non da Zona a Zona, hanno, ovviamente, causato interpretazioni fluide e, sovente, in contrasto.
Il calo progressivo delle risorse che il sistema dei trasporti ha affrontato (le linee ferroviarie regionali al collasso, il calo di competitività della compagnia di bandiera nel settore dell’aviazione nonché i conclamati deficit strutturali della linea stradale e autostradale, senza richiamare i crolli e le condizioni del manto stradale o la pulizia e il controllo delle aree attigue) ha portato a un impoverimento dell’offerta del servizio (spesso accompagnato da un aumento delle tariffe senza conseguenti ammodernamenti).
Lo sblocco delle risorse che potrebbe trovare spazio richiede una strategia di sviluppo professionale a visuale ampia e integrata che pare, al momento, mancare (si pensi, tra tutti i temi, al tentennamento relativo alla creazione di una rete blockchain o simile).
Senza questi elementi, le imprese del settore trasporti, quelle collegate all’indotto nonché a cascata le altre attività d’impresa, in generale, difficilmente recupereranno competitività a lungo termine.
Il rallentamento forzoso così imposto impone la ridefinizione del sistema delle interconnessioni, delle reti e delle infrastrutture e delle comunicazioni; l’idea di individuare nelle stazioni e negli aeroporti il luogo deputato a incontri, sviluppo e allineamento dei progetti – con la creazione di aerotropoli collaterali pulsanti di vita propria – potrebbe essere concettualmente superata da incontri virtuali senza più alcuna stretta di mano a siglare la genuinità di un incontro.
Le città globali megalopiche governate da strutture e tecnologia “pre-Covid” rischiano il collasso: le metropolitane e i mezzi di superficie dovranno essere ripensati per il nuovo concetto di movimento. Ciò non avverrà necessariamente presto e richiederà necessariamente un partenariato pubblico privato a raccordo dei processi di rilancio che connettano finanza, edilizia e servizi integrati.
Imperanti gli obblighi di non assembramento, si dovranno ricalibrare, con nuovi algoritmi, i piani finanziari basati su redditività, ingresso clienti, aggregazione sociale, sfruttamento della massificazione e densità abitativa (insieme ai nuovi costi di giustizia, formazione universitaria specializzata, trasporto e residenza).
Una base di partenza sarà il potenziamento delle reti tecnologiche: il 5G per il trasporto dei dati, le reti a registro decentralizzato e le svariate funzioni dei servizi pubblico e del privato che ne seguono (si pensi tra le tante, con riguardo al settore pubblico, alla possibilità di alleggerire i costi per i passaggi di proprietà, per la compilazione della dichiarazione dei redditi, per le operazioni di voto e per ogni genere di registrazione di dati, primi tra tutti quelli medici – valori ematici, anamnesi etc. – che sarebbero disponibili, immediatamente e in maniera sicura, in ogni centro sanitario a cui si accede; in ambito privatistico, la possibilità di tokenizzare gli investimenti e eliminare gli intermediari nelle transazioni oppure, parimenti rivoluzionario, la gestione diretta del proprio traffico energetico e lo sfruttamento del net metering).
Le manifestazioni organiche (lo smart working) o estemporanee (le sfilate di moda che si sono svolte senza pubblico e sono state proiettate in streaming e gli showroom virtuali, per mostrare i prodotti alla comunità dei buyers) non sono certo mancate; così come sono intervenute iniziative anti speculative (si pensi ad Amazon, che ha combattuto le condotte non commendevoli di venditori di beni di prima necessità sanitaria).
Ma è inevitabile osservare come, per le nostre imprese che fondano lo zoccolo duro del proprio bussiness sull’export, la catena di valore sarà oggetto di pregnante revisione e il danno reputazionale, cui dovranno far fronte gli operatori, sarà un fardello pesante con il quale sarà inevitabile il confronto e che accompagnerà la ripresa.
Poste queste brevi, seppur crude e severe premesse, la previsione di modelli che siano preposti alla gestione di occorrenze come il Covid-19, tipico evento Six-sigma (altamente improbabile in base a computazioni statistiche e quantitative), permette di evitare che la percezione del rischio di un evento possa essere sottovalutata sia in fatto di possibilità di verificazione che di incidenza e deflagrazione.
A gennaio, il World Economic Forum aveva collocato i rischi sanitari e le potenziali pandemie al centro dell’agenda; eppure nonostante queste esortazioni, il Covid-19 è stato erroneamente percepito come un evento privo di ripercussioni sul territorio italiano.
Come hanno parlato le evidenze di questo periodo, l’epidemia ci ha colti, invece, completamente disorganizzati.
Il full risk management approach che propugnano i modelli di crisis management, a buona ragione, diverranno elemento necessario in sede di ogni organizzazione aziendale che si interfacci con attori istituzionali deputati a concedere contratti o finanziamenti, in base anche alla capacità di reggere e superare i vari stress test richiesti.
Quindi, va da sé che, pur rimanendo l’emergenza legata alla pandemia una questione primariamente sanitaria e umana, il richiamo a una ripresa economica che permetta alle imprese di riprendere, con la dotazione di strumenti idonei a prevenire eventuali futuri eventi di crisi manageriale (siano essi minori o su scala più allargata), è un facile consiglio che oggi, più che mai, va tenuto in considerazione e accolto non appena la normale vita professionale riprenderà il proprio corso.
In tale scenario, ancor prima che in altre realtà, le MPMI dovranno far fronte (in attesa di una valutazione in ordine alla regolamentazione del declassamento nel merito creditizio e dei premi di rischio) al potenziale crollo della domanda e alla temporanea sospensione della catena di distribuzione e approvvigionamento – soprattutto se le stesse imprese hanno indirizzato i propri interessi verso Oriente – con evidenti problemi di rinegoziazione degli accordi, minati dalla sopravvenienza di un evento che ha reso impossibile l’esecuzione della prestazione e, parallelamente, ha favorito la ricerca di soluzioni differenti e forse più local. Un semplice catalogo esemplificativo delle iniziative primariamente suggerite racchiude misure volte alla tutela dei dipendenti e del loro lavoro (a prescindere dalla nota possibilità dello svolgimento delle mansioni lavorative da remoto) che garantisca una continuità e un efficiente ritorno alla normalità (eventualmente con nuove competenze flessibili e secondo un formazione costantemente aggiornata), nonchè la predisposizione di una unità di crisi che tenga continuamente monitorate (i) le allerte (i primi avvisi sulla pericolosità del virus erano già stati sollevati settimane prima della sua ufficializzazione); (ii) il grado di soddisfazione e benessere dei clienti (attraverso la gestione degli ordini); (iii) la catena di approvvigionamento (attraverso la razionalizzazione delle scorte e degli ordini, ad esempio, ma anche per mezzo di servizi di trasporto assicurati ovvero secondo la logistica degli stock; e, post crisi, con la predisposizione di strumenti per fronteggiare picchi di domanda con valutazioni circa il potenziamento dell’attività di e-commerce e al parallelo potenziamento del canale «pure digital»per le proprie attività); (iv) la disponibilità di liquidità – preconizzando le iniziative necessarie a rendere stabile l’organizzazione aziendale attraverso accorpamenti di funzioni, riduzioni della linea decisionale e valutazioni di smobilizzo da investimenti in modo da essere allineate alle linee guida del Business Continuity e Disaster Recovery di settore (si vedano la BRRD1 e la Circolare 285/2013 per le banche o la Direttiva NIS per gli Operatori di Servizi Essenziali); (v) le aggiornate misure necessarie per garantire la sicurezza sul lavoro e le condizioni di salute e produttività dei dipendenti; (vi) il mantenimento della sicurezza dei dati personali (sottoposta a forte tensione nel caso di smart working organicamente adottato); e (vii) la corretta risposta ai quesiti della compliance e dell’auditing che possono anche parallelamente fornire indicatori utili e un aiuto istituzionalizzato con proposte e ricette per la tenuta aziendale.
Nella coniugazione del principio cardine del GDPR di responsabilizzazione, il “luogo di lavoro” si muove fuori dall’azienda e il precedente risk assessment necessita, a sua volta, di una ricalibratura: per la Cyber-Security sarà obbligatorio assicurare lo stesso regime di sicurezza nella connessione (firewall, antivirus, adozione di reti virtuali private, criptazione dei dati) nonché nell’organizzazione (con l’incardinamento di rinnovate e adeguate direttive per la protezione dei dati). Infatti, i dispositivi impiegati (solitamente contaminati da un uso commisto pubblico/privato) non sono sempre idoneamente schermati e si connettono a router e/o reti abitative non protette; allo stesso modo, i dispositivi portatili sono spesso alla portata dei conviventi che potenzialmente ledono i vincoli di riservatezza e disponibilità del lavoratore. Nelle more di una sintonizzazione delle misure di protezione informatica a salvaguardia dai pericoli di Data Breach, l’imprenditore, in questi casi, si pone a rischio di una culpa in vigilando (da remoto) impensabile nelle sue connotazioni, se non in tempi recenti.
A livello di salute e sicurezza sul lavoro, spiccano per insidiosità le problematiche collegate al rispetto di orari e di pause, che richiedono un coinvolgimento specifico del medico del lavoro e dell’Organismo di Vigilanza ex normativa 231. Essendo, poi, i mezzi di lavoro tecnologici un veicolo di facile propagazione del virus, si richiederebbero attenzioni di sanificazione regolari soprattutto in caso di smart working prolungato, il quale realizzandosi fuori dal luogo di lavoro è, quindi, più difficilmente controllabile.
La predisposizione di misure di sicurezza nei luoghi di lavoro, con la tenuta di continui contatti con il medico competente e le strutture sanitarie (predeterminate), rappresenta, in questa fase, il miglior veicolo per la recezione delle misure necessarie per assicurare la salubrità dell’ambiente e l’ottemperanza alle misure imposte dalle autorità; il tutto andrà anche necessariamente coordinato con la comunicazione e compilazione di report e circolari su base cadenzata (a frequenza variabile, secondo i temi) e la stipula di contratti assicurativi che possano coprire anche ipotesi di contagi dei dipendenti a integrazione del welfare esistente, insieme a un numero verde per l’assistenza e il supporto psicologico.
Il nuovo impianto giuslavoristico richiede ineludibilmente una radicale revisione dei protocolli di formazione e gestione della pandemia – da svolgersi anche in questo caso da remoto – su temi come la (i) gestione dell’emergenza emotiva e operativa, (ii) il ritorno radicato presso la propria abitazione anche per lo svolgimento dell’attività lavorativa e (iii) la ricalibratura delle riunioni da remoto, l’impostazione del lavoro a obiettivi e la Cybersecurity.
Certo, perché ciò avvenga, l’impostazione di chi intende il risk management come un inutile fardello anziché un meccanismo – da tempo diffuso nelle economie più avanzate – volto a salvaguardare la sicurezza e il valore e il prestigio dell’impresa, dovrebbe richiamare alla memoria i precedenti crolli economici legati al terrorismo, alla bolla dei derivati o delle “.com corporations”, oltre all’odierna pandemia.
In conclusione, una governance efficace e risposte di crisis management puntuali, in situazioni estreme, in sintesi, richiedono una programmazione specifica e una catena di comando che sia quanto mai breve e che esprima le proprie direttive attraverso comunicati e condotte chiare e di pronto e immediato utilizzo e rappresenti la sintesi tra il mondo imprenditoriale e professionale che insieme sono chiamate a elaborare risposte che perseguano il soddisfacimento del bene comune. [In questa direzione, il programma di Voucher introdotto in tema di proprietà industriale che agevola l’accesso per le imprese (tra cui le start up) alla consulenza specializzata di professionisti a ciò abilitati e trasparentemente accessibili da elenchi del Consiglio Nazionale Forense rappresenta una buona pratica e un momento di implementazione del sistema.]
Andrea Borroni
Professore presso l’Università della Campania e Avvocato in Milano.
Direttore del Master in “Islamic Banking and Finance” dell’ICC e docente al Master in “Business and Company Law – European and International Perspectives” presso la sede della LUISS School of Law.